MICHAEL KEPLER – l’intervista di Rock Hard; il nuovo album “Mask Of The White Ape” in uscita oggi su Universal

MICHAEL KEPLER – l’intervista di Rock Hard; il nuovo album “Mask Of The White Ape” in uscita oggi su Universal

Intervista Michael Kepler

Il pianeta delle scimmie

Di Stefano Cerati

Michael Kepler è un musicista italo-svizzero attivo ormai da molti anni in diversi collettivi e band di musica sperimentale, dove gli piace spaziare tra i generi, dal prog alla fusion, dal metal al pop. Finalmente ha deciso di esordire con quest’album solista dove suona tutti gli strumenti e può mettere in mostra non solo un’indubbia tecnica, ma anche una sensibilità molto espansa che lo porta a costruire lunghi viaggi, che tuttavia hanno un appeal immediato, grazie a linee vocali subito riconoscibili. È proprio con lui che parliamo dell’album Mask of the White Ape, in uscita proprio oggi, 3 maggio, per la Universal.

Puoi raccontarci in breve la tua storia musicale e qual è lo strumento che ti è più congeniale suonare?

“Ho cominciato con il pianoforte da ragazzino, ma mi sono presto accorto che i miei gusti erano più orientati al rock e quindi verso i 13 anni è arrivata la prima batteria e l’anno dopo il primo basso. Due amori che da allora non ho più lasciato, anche se alla fine il basso ha decisamente prevalso”.

Suoni da molti anni ormai. Come mai hai aspettato così tanto tempo per pubblicare il tuo esordio solista?

“Ho sempre suonato in progetti di gruppo, come succede spesso: soprattutto da ragazzi il desiderio numero uno è quello di mettere in piedi una “band”, ovviamente. Poi, negli anni ho cominciato piano piano a scrivere roba mia al di là di quello che suonavo con altri gruppi. Negli ultimi anni mi sono trovato ad avere molto materiale ed è cresciuta in me l’idea di fare qualcosa da solo. E così è nato Mask of the White Ape”.

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So che suoni in collettivi di improvvisazione, quindi sei molto libero di suonare senza barriere, quello che vuoi. Che cosa ti permette di fare un album da solista che invece non trovi in una band vera e propria?

“È proprio con l’improvvisazione che ho imparato ad “ascoltare” le sensazioni che nascono nel sentire dei suoni e a “rispondere” istintivamente. Questo si è poi rivelato essere il fondamento anche del mio lavoro in solitaria: mi viene un’idea e la butto giù senza processarla troppo coscientemente – spesso la prima versione o la seconda è la migliore, quella che alla fine decido di mantenere. E allo stesso modo, poi procedo con tutte le altre parti strumentali e vocali: questo è molto difficile da ottenere da un collettivo, mentre da solo ho la libertà di seguire sempre l’ispirazione del momento”.

L’album è piuttosto vario, si sentono chiaramente eleganti influenze che vengono dalla fusion e dal prog. Sono questi i generi musicali che ti piace frequentare di più e a cui in qualche modo la tua musica è più legata?

“Diciamo che, in generale, mi nutro musicalmente di ciò che trovo interessante: mi piacciono gli Slayer e gli Autechre, Berio e i Tangerine Dream, Miles Davis e i Japan. Ma si, in definitiva direi che le aree dove trovo più musica interessante sono il progressive (in senso molto ampio) e la fusion. E in particolare alcuni gruppi che mi hanno decisamente influenzato, come ad esempio Rush, King Crimson, Porcupine Tree e la Mahavishnu Orchestra, per citarne uno di area fusion”.

C’è qualche ragione particolare perché hai scelto questo nome d’arte?

“È stata una decisione presa un po’ d’improvviso, suggerita dal produttore con cui ho lavorato, Pietro Foresti. Il quale, conoscendomi bene, sa che mi affascina l’astrofisica e, soprattutto, sapeva che stavo scrivendo un pezzo utilizzando un campione audio del “rumore” emesso da una stella, Kepler-11. Alla fine il brano non è entrato a far parte dell’album, ma il nome è rimasto”.

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Quanto tempo hai impiegato a scrivere tutti i brani? Ho letto che hai cominciato addirittura durante la pandemia

“È stato un lavoro piuttosto lungo in effetti: in realtà è cominciato ancora prima della pandemia, verso il 2019 e si è concluso agli inizi del 2023. Ma d’altronde non avevo alcuna fretta…”

Che significato ha il titolo Mask of the White Ape? Da dove viene?

“Il concetto fondamentale è quello della maschera, ovvero il simbolo di ciò che quotidianamente la maggior parte di noi “indossa” per essere un individuo che meglio si adatta all’ambiente sociale. Non ci mostriamo quasi mai come siamo veramente perché per sopravvivere dobbiamo poter collaborare, andare in qualche modo d’accordo. Se ci mostrassimo sempre come siamo veramente, con le nostre debolezze e i nostri istinti animali non potremmo convivere in una società. Non è un concetto originale, ma credo che di questi tempi possa spiegare molte delle dinamiche che osserviamo…”

Come hai scelto il cantante? Perché non hai provato a cantare tu stesso visto che ti sei occupato anche di scrivere tutti i testi?

“Credimi, è molto meglio se non canto io! Scherzi a parte, non ho mai pensato di poter utilizzare la mia voce, non ne sarei capace. In compenso, la voce di Alessandro Ranzani mi è sempre piaciuta, fin dai tempi dei Movida e quando Pietro mi ha proposto di collaborare con lui sono stato più che felice. E infatti secondo me ha fatto un lavoro favoloso!”

Nell’album ci sono anche molti arrangiamenti elettronici. Hai voluto espandere il suono in una direzione più moderna in questo modo e creare a volte un’atmosfera espansa, quasi sinfonica e orchestrale (ad esempio in It Does Not Rain)?

“Come dicevo, sono molto incline a seguire l’ispirazione del momento e lo stesso avviene per la scelta dei suoni: non mi pongo barriere “stilistiche” o di principio. Se ho in mente un tipo di suono per una parte, semplicemente lo uso. In realtà non ho mai capito chi si preclude delle vie espressive per partito preso. E poi, come giustamente dici, i suoni elettronici permettono di creare delle atmosfere molto potenti ed evocative, quindi mi è venuto naturale utilizzarli”.

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Ho letto che molti testi riflettono dei cambiamenti nella tua vita personale. Vuoi dirci di più? Quali sono stati gli avvenimenti più importanti che hanno determinato dei cambiamenti?

“Beh, in particolare all’origine della decisione di buttarmi in questo progetto c’è stata la scomparsa di due persone a me molto vicine. In quel momento ho sentito l’esigenza di esprimermi come non avevo mai fatto prima. Mi sono concesso una sorta di ‘regalo’ che controbilanciasse il senso di perdita”.

Mi ha colpito un titolo come Dead But Still Moving. Di che cosa parla?

“Dead But Still Moving parla di come molte persone vivono la loro vita: le loro giornate sono una sequenza di abitudini, di obblighi, di azioni ripetute sempre uguali. Credono di avere interessi, passioni, ma in realtà dietro c’è il vuoto. Sono morti, ma non lo sanno e continuano a muoversi ripetendo le loro giornate finché non è troppo tardi”.

I tuoi testi si possono considerare una sorta di purificazione personale, un modo per liberarsi di sensazioni negative? Si avverte un senso malinconico di fondo. Era questa l’intenzione?

“Più che l’intenzione, come ho spiegato prima, è stata una necessità per rispondere ad un periodo difficile. So che il termine è abusato, ma direi che è stata una sorta di catarsi”.

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Non ci mostriamo quasi mai come siamo veramente perché per sopravvivere dobbiamo poter collaborare, andare in qualche modo d’accordo. Se ci mostrassimo sempre come siamo veramente, con le nostre debolezze e i nostri istinti animali non potremmo convivere in una società”. (Michael Kepler)

Nonostante l’album sia molto tecnico hai voluto che mantenesse un approccio scorrevole e molto melodico soprattutto nella voce. È stata una cosa voluta?

“Anche qui, è stata una cosa piuttosto istintiva: ci “sentivo” quelle linee vocali e non sono stato troppo a ragionarci sopra. E poi è stato fondamentale il contributo di Alessandro Ranzani, che ha saputo “sgrossare” ed affinare le mie idee mettendoci del suo (allo stesso modo di come sono stati fondamentali in questo Vincenzo Giacalone e Alessio Spallarossa per le parti strumentali). Soprattutto direi che ha saputo renderle credibili e non è facile quando ci sono arrangiamenti strani, tempi dispari e quant’altro. Credo che alla fine il tutto sia venuto piuttosto orecchiabile, nonostante alcune complessità”.

Le canzoni sono mediamente tutte piuttosto lunghe. Quindi ti piace costruire dei viaggi, delle vere e proprie esplorazioni sonore, dei flussi?

“Mi è sempre piaciuta la musica che sa raccontare, che si prende il tempo per sviluppare un’idea. È per questo che mi piace il prog, suppongo. Certo, oggi più che mai, l’essere concisi è un imperativo categorico; d’altronde siamo nell’era dell’ascolto digitale, dove i primi 30 secondi di un brano devono spiegare già tutto, per così dire. E ci sta, non è una critica la mia, solo che non è nelle mie corde: per me ogni brano è un viaggio che ti porta da qualche parte e non riesco a fermarmi alla prima area di sosta”.

Non molti artisti italiani di questi tempi finiscono su una major. Forse che le case discografiche maggiori dopo tanto tempo stanno riscoprendo il rock italiano (magari grazie anche al successo dei Maneskin) piuttosto che solo il rap e la trap?

“E, visto che sono italo-svizzero, ti confermo che anche in terra elvetica è uguale. Credo che soprattutto sia una questione di scelte da parte degli artisti, che sentono forse una maggiore libertà nel lavorare con realtà indipendenti o molto specializzate. Quello che è certo è che un gruppo come i Maneskin può solo fare del bene al mondo della musica rock (e “suonata” più in generale). So che a molti non vanno a genio perché li ritengono un mero prodotto dell’industria discografica, ma io li apprezzo perché hanno carisma e dal vivo sono molto bravi. E stanno facendo vedere anche alle nuove generazioni che ‘si può fare!'”.

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Ci sono dei piani per portare quest’album e queste canzoni dal vivo? Hai già programmato una presentazione e un tour di supporto dell’album?

“Al momento un’attività live a supporto di The Mask of the White Ape non è ancora stata prevista. D’altronde è un progetto concepito in solitaria e finora mi sono concentrato sulla sua realizzazione. Ma conto che le occasioni non mancheranno in futuro”.

MICHAEL KEPLER ONLINE:
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Instagram: https://www.instagram.com/michaelkeplermusic/
Album “Mask Of The White Ape”: https://udsc.lnk.to/motwa

Emanuele Biani

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