DESERTFEST LONDON 2025 il nostro live report

DESERTFEST LONDON 2025 il nostro live report
Desertfest London 2025, Londra, 16-17-18 maggio 2025: il nostro live report
Parole di Terry Palamara
Come da tradizione, all’avvicinarsi del weekend del Desertfest ci si attrezza con ogni mezzo, psicologicamente e soprattutto fisicamente.
Il festival è una vera e propria maratona, una corsa contro il tempo per non perdersi questa o quella band (o almeno gli ultimi dieci minuti di un set!), un continuo peregrinare da un locale all’altro.
Il sabato è notoriamente la giornata più impegnativa, complice l’inserimento della Roundhouse tra le venue.
Una quindicina di minuti a piedi dall’Electric Ballroom che, ripetuti più volte nell’arco della giornata, fanno impennare il conteggio dei passi sulle nostre app.
Le venue coinvolte, come di consueto, sono quattro al giorno: Electric Ballroom, The Underworld, Black Heart e The Dev per il venerdì e la domenica.
Il sabato la Roundhouse prende il posto del Ballroom (in passato era il KOKO a occupare quel ruolo).
Le strade di Camden Town si affollano di giacche di jeans, chiodi, toppe dei Bongzilla, magliette di Sleep, Electric Wizard e Green Lung (questi ultimi sempre più popolari nel Regno Unito).
Da oltre un decennio il Desertfest è il punto di riferimento per la scena stoner/doom/sludge, ormai esportato anche a New York, Berlino, Oslo e Anversa.
Ci apprestiamo a dare il via all’avventura, consapevoli però che, quest’anno, per noi inizierà con un leggero ritardo.
Impegni lavorativi ci impediscono di raggiungere il frenetico quartiere a Nord di Londra prima delle 19:30 del venerdì, perdendo così band come Lowrider, Stoned Jesus, 10,000 Years, Elephant Tree e tante altre che non staremo nemmeno a elencare, perché la ferita è ancora aperta.
GIORNO 1 – Venerdì 16 Maggio 2025
Giunti al Black Heart, punto di ritiro di braccialetti e accrediti per il weekend, decidiamo di salire al piano superiore, dove in quel momento stanno suonando i Kind, gruppo di Boston, Massachusetts.
Tre album all’attivo per Ripple Music per la band formata da membri attuali ed ex di Roadsaw, Elder e Sasquatch.
Quando arriviamo davanti alla porta della sala concerti, il set è appena iniziato e ci investe un tiro doom caldo e avvolgente, ma tale è anche l’atmosfera della piccola venue (la sua capienza non supera le 150 persone), già stracolma.
Dal fondo non si riesce a intravedere neanche un minimo scorcio di palco. Decidiamo quindi di muoverci in direzione The Underworld per goderci il set degli Årabrot.
ÅRABROT – foto di Jessy Lotti
I norvegesi Årabrot sono una formazione decisamente fuori dagli schemi, guidata da Kjetil Nernes.
Una figura carismatica che, dopo una dura battaglia – vinta – contro il cancro ha riversato corpo e anima in una nuova incarnazione della creatura fondata nel 2001.
Con un look da cowboy rivisitato, in completo bianco, affiancato dalla moglie Karin Park al piano e ai cori, e da un batterista, Nernes mette in scena uno spettacolo di noise-rock energico e sottilmente spirituale.
Il suo stile è attraversato da venature di fuzz e post-punk, che trova il suo apice in brani come We Want Blood, tratto dall’ultimo album Of Darkness And Light (2024), e in una cover notevole di Children Of The Revolution dei T. Rex, pezzi che portano tutti i presenti a cantare a pieni polmoni.
Le tematiche degli Årabrot comprendono interpretazioni macabre di opere classiche come la Bibbia e l’Inferno di Dante, per un risultato finale sorprendente.
Come primo gruppo a cui assistere per inaugurare il Desertfest 2025, la scelta si rivela perfetta.
Intensità, calore e un tocco di stranezza (oltra a una buona dose di unicità, in un contesto generalmente dominato da sonorità stoner/doom) ci catapultano subito nel cuore del festival.
Lasciamo un vibrante The Underworld per dirigerci verso i principali headliner di questa prima giornata.
ELDER – foto di Jessy Lotti
L’Electric Ballroom è gremito, forse come non lo sarà mai più nel corso del weekend.
Gli Elder non rappresentano certo una novità per il Desertfest: nel 2016 li avevamo già visti protagonisti di un’esibizione memorabile al KOKO, nella giornata che vedeva gli Electric Wizard come headliner.
Oggi, invece, sono loro a occupare la posizione più prestigiosa del bill.
Come anticipato, il Ballroom trabocca di pubblico, sia al piano inferiore che sul livello superiore, dove solitamente ci si dispone lungo la corniciaia, punto in cui la visuale è tra le più suggestive.
Si abbraccia l’intero palco, l’acustica è bilanciata e si coglie appieno l’intensità collettiva del momento, quasi trascendentale, durante l’esibizione del quartetto del Massachusetts (oggi di base in Germania).
Scriviamo “quasi” perché, se sulla carta gli Elder – il cui ultimo full-length Innate Passage risale al 2022 – restano una band di straordinaria ricchezza compositiva, e se anche oggi la performance è tecnicamente impeccabile, qualcosa sembra mancare.
Propongono Lore, il loro terzo album, nella sua interezza: un lavoro che nel 2024 ha compiuto dieci anni e che per molti rappresenta il vertice della loro discografia.
Ottima la malinconia sospesa di Legend e il dinamismo di Spirit At Aphelion, momento in cui il confine con il prog si fa più netto che mai.
La voce di Nicholas DiSalvo intona melodie familiari (come quella della title-track) che si fanno largo tra epiche strumentali, assoli e cambi di tempo vertiginosi.
Eppure, nonostante le tracce proposte siano complesse, stratificate e allo stesso tempo organiche, il trasporto emotivo sembra latitare.
L’ora e mezza del set scorre tra sezioni potenti, venate di prog e psichedelia heavy rock, ma per qualche ragione non si riesce davvero a perdercisi dentro.
Il set si chiude con Halcyon, da Omens (2020), e Dead Roots Stirring (2011), riportando il tutto sulle coordinate sludge e doom che, per un attimo, avevamo quasi lasciato da parte.
HEXIS – foto di Jessy Lotti
Terminato il concerto degli Elder, alle 22:00 facciamo un veloce salto al The Underworld, dove gli Hexis stanno per concludere la loro esibizione.
Rimpiangiamo di non essere arrivati prima, perché l’hardcore dei danesi – intriso di sludge e black metal – sprigiona un’intensità travolgente.
Energia percepibille, anche solo nei dieci minuti finali che riusciamo ad assaporare, immersi nel sudore e nella temperatura soffocante del locale sotterraneo, a pochi passi dall’Electric Ballroom.
Oggi all’ultima data del tour celebrativo per i quindici anni di carriera, mettono in scena un vero e proprio assalto e la folla è scatenata.
Complici il rammarico per non essere arrivati prima e la curiosità rimasta accesa, più tardi, in direzione casa, ci immergiamo nelle cuffie con Aeternum (2022) sparato a volume pieno.
DEVILLE – foto di Jessy Lotti
Gli spostamenti da un locale all’altro e le camminate tra la fitta massa di turisti ignari sono parte integrante dello spirito del festival.
Un evento itinerante in cui non è la “compagnia” a muoversi, ma è il pubblico a inseguire, a correre, a sfidare il tempo.
Scegliamo di concludere la prima giornata del Desertfest 2025 con l’esibizione dei Deville al The Dev (un tempo noto come The Devonshire Arms).
Locale-pub più che vera venue da concerti, il più raccolto tra gli spazi coinvolti, con un palco incastonato in fondo, nell’angolo, a tal punto che per raggiungere il bagno delle donne ci si passa praticamente sopra.
Anche per i Deville non si tratta di un debutto al Desertfest, e il loro live si rivela la chiusura ideale di questa prima giornata.
Questo nonostante i volumi inconcepibilmente alti (soprattutto davanti al palco) e i dieci minuti di coda prima di riuscire a entrare.
L’heavy rock del quartetto svedese, punteggiato da riff doom, sezioni strumentali trascinanti, tocchi di psichedelia e armonizzazioni vocali, è travolgente e suonato con mestiere.
La scaletta abbraccia l’intera, ventennale discografia, su un palco evidentemente troppo limitato per contenerne l’energia, ma trasudante veracità.
Alle 23:00, a set concluso, ci dirigiamo verso il Black Heart, dove sono in corso gli Hippie Death Cult.
La sala è impraticabile, gremita all’inverosimile e con una coda d’ingresso scoraggiante, portandoci a scegliere di fermarci al bar del piano inferiore, dove è in corso uno degli after-party del festival, con DJ-set fino a notte fonda.
GIORNO 2 – Sabato 17 Maggio 2025
DESERTFEST LONDON 2025 il nostro live report
Nonostante la prima giornata sia iniziata tardi per noi, l’after-party del Black Heart si fa sentire durante il sabato mattina, e raggiungiamo Camden Town solo intorno alle 16:30.
Ricordiamo che oggi nessun live è previsto all’Electric Ballroom: per la sola giornata di sabato, infatti, la venue principale – e più capiente – è la Roundhouse di Chalk Farm.
A inaugurare la programmazione sono le Konvent, formazione death doom tutta al femminile originaria di Copenaghen.
Ma la tentazione di iniziare dalle viscere dell’Underworld, a pochi passi dalla stazione della metropolitana, è irresistibile.
Ci caliamo così nel seminterrato e ci lasciamo travolgere dall’universo sonoro dei Maha Sohona.
MAHA SOHONA – foto di Jessy Lotti
Quella dei Maha Sohona è una storia singolare.
Trio di Umeå, Svezia, che dopo l’uscita dell’omonimo debutto nel 2014 è praticamente scomparso dai radar, per poi esibirsi dal vivo per la *prima volta in assoluto* sei anni dopo, mentre nel frattempo il brano Asteroids dall’esordio aveva acquisito quasi una vita propria.
Il terzo album è atteso proprio per quest’anno e, dal vivo, la band si rivela un’esperienza decisamente coinvolgente.
Quattro lunghi brani, tratti dal secondo lavoro Endless Searchers del 2021, conducono in un viaggio sospeso tra psichedelia e raffinatezza, con episodi come Leaves che si stagliano con forza.
Il set si chiude con la già citata Asteroids, brano che porta alla mente gli Alice In Chains in chiave stoner/space rock, lasciando i presenti sudati, storditi e soddisfatti, e costringendoli a uscire da un trip in cui avevano trovato un inaspettato rifugio.
CONAN – foto di Sam Huddleston
Corriamo (letteralmente) verso la Roundhouse per non perdere il finale dello show dei Conan, autentici veterani del Desertfest.
Nove apparizioni tra Londra, Anversa, Berlino e New York, e tutt’altro che rari dal vivo (ricordiamo una data prevista in Italia per il prossimo autunno), ma la loro performance resta sempre intensamente appagante.
Non sono ancora le 18 e la Roundhouse, con una capienza di quasi 1.800 persone, è già straripante.
Va sottolineato che il festival offre anche biglietti giornalieri, ed è consueto, per alcuni possessori del pass per la sola giornata di sabato, rimanere alla Roundhouse.
Molti di loro non si muovono verso gli altri spazi più centrali, tutti ad almeno quindici minuti di distanza, rendendo per tanti il continuo spostamento poco invitante.
Riusciamo a cogliere la parte finale del concerto dei Conan, freschi dell’ultimo Violence Dimension, da cui traggono brani come Desolation Hexx e Frozen Edges Of The Wound.
Quest’ultimo, con il suo chorus epico che si trasforma qui in un vero e proprio inno, si va a piazzare egregiamente tra classici.
Il trio di Liverpool, oggi con David Ryley al basso, travolge il pubblico con la potenza e il volume del loro doom/sludge, con riff frastornanti e la voce ruvida e riconoscibile di Jon Davis.
Al termine del set, contrariamente a quanto stabilito prima dell’inizio dell’evento, decidiamo di lasciare la Roundhouse, rinunciando così ai Pallbearer, doom band dell’Arkansas che si esibirà fino alle 19:30.
SONS OF ALPHA CENTAURI – foto di Jessy Lotti
I Sons Of Alpha Centauri ebbero l’onore, nel 2012, di essere la primissima band a calcare il palco principale del primo Desertfest.
Sno tornati lo scorso anno, anche se solo per una breve apparizione come ospiti della Desert Jam Session con Fatso Jetson e Sean Wheeler.
A rendere particolarmente interessante lo show di oggi al The Underworld è la presenza dietro le pelli di Alfredo Hernandez.
Un’autentica leggenda del desert rock, con un passato in formazioni come Kyuss, Queens Of The Stone Age, Brant Bjork And The Bros e Yawning Man.
Il trio proveniente dal Kent conduce il pubblico, per quarantacinque minuti, in un’epopea strumentale che si muove tra post-rock, post-metal e hard rock dalle venature spaziali.
Al timone troviamo ancora Nick Hannon e Marlon King, membri fondatori, rispettivamente al basso e alla chitarra.
Distorsioni fragorose, sezioni introspettive e atmosfere in continua mutazione catturano il respiro di tutti i presenti, un pubblico che sembra un microcosmo a sé rispetto a quello presente alla più distante Roundhouse.
LUST RITUAL – foto di Jessy Lotti
Facciamo ritorno al The Dev per la seconda volta, dopo lo show dei Deville di venerdì sera.
Questa volta è il turno dei Lust Ritual, giovanissima formazione con base a Londra ma dal profilo internazionale, con membri provenienti da Colombia, Italia e Regno Unito.
Con all’attivo un solo EP (Forbidden Rites, 2024) e già confermati per il prossimo Bloodstock, i Lust Ritual si muovono su coordinate doom classiche, con riff dilatati che si alternano a sezioni più serrate, figlie dirette dell’eredità sabbathiana.
La vocalist, Ieva Ruiz, rappresenta senza dubbio uno dei punti di forza del gruppo.
La sua voce è intensa, abrasiva (sfocia nel growl in alcuni frangenti), capace di imporsi, e l’affabile presenza scenica conquista l’accaldata e numerosa folla.
Anche nelle composizioni, seppur ancora crude, si avverte un margine di crescita evidente: i brani coinvolgono, intrattengono, e mostrano già qualità individuali in divenire. Una realtà da tenere d’occhio.
AMENRA – foto di Jessy Lotti
Facciamo ritorno alla Roundhouse per uno dei momenti più attesi dell’intero festival: gli Amenra.
Non perché siano raro vederli dal vivo, tutt’altro, ma perché ogni loro esibizione si trasforma in un vero e proprio rituale espiatorio.
E anche questa sera non fa eccezione.
Il quintetto fiammingo, fresco della pubblicazione dei due EP With Fang And Claw e De Toorn, si presenta con Amy Tung Barrysmith (già nei Year Of The Cobra) al basso, mentre il resto della formazione resta invariato, con tre dei membri fondatori ancora saldamente in organico.
Il fulcro dell’esperienza monocromatica degli Amenra è Colin H. Van Eeckhout.
Figura centrale, intensamente espressiva, poeta lacerato che alterna esplosioni emotive a passaggi di introversione minimalista.
Doom, dolore ed estasi convivono in una performance che ipnotizza l’intera Roundhouse, sospesa tra sezioni strumentali capaci tanto di ammaliare quanto di colpire con brutalità.
Van Eeckhout è quasi sempre rivolto di spalle, come se incapace di sostenere lo sguardo del pubblico mentre si espone in tutta la sua vulnerabilità.
Quando, a metà set, si percepiscono le prime note di A Solitary Reign da Mass VI (2017), si ha la netta percezione di trovarsi di fronte a un picco emotivo difficilmente eguagliabile nel corso del weekend.
Silver Needle. Golden Nail sancisono la fine, lasciando i presenti in uno stato di fragile tregua, grati per avere condiviso un frammento di redenzione così puro.
ZEAL & ARDOR – foto di Jessy Lotti
Nonostante il tempo permetterebbe di assistere ai Planet Of Zeus al The Underworld o ai Green Milk From The Planet Orange al Black Heart, ci tratteniamo alla Roundhouse.
Ogni tanto è necessario anche prendersi quindici minuti di tregua.
Dopo un cambio palco di circa mezz’ora, è il turno degli Zeal & Ardor.
La formazione svizzera di avant-garde metal, nota per il suo singolare intreccio tra rap, gospel e black metal, fa il suo ingresso intunicata, tra luci drammatiche e cangianti, dando vita a uno show visivamente d’effetto.
Eppure, dopo una giornata intensa e la recente e totalizzante esperienza vissuta durante gli Amenra, la proposta della band guidata da Manuel Gagneux, pur universalmente apprezzata, risulta in qualche modo dissonante.
La Roundhouse appare decisamente più spoglia rispetto alle ore precedenti, segno che in molti hanno deciso di concludere in anticipo la loro giornata o di spostarsi verso sonorità più tipicamente consone al festival.
Chi rimane, però, lo fa con autentica partecipazione.
Sul palco, l’energia non manca: in un’ora e mezza, il sestetto esegue ben venti brani, con un focus marcato sull’ultimo lavoro in studio, Greif, pubblicato lo scorso anno.
Proviamo a restare coinvolti per l’intera durata del set, ma la crescente sensazione di distacco nei confronti della performance degli svizzeri inizia a prevalere.
Gli Zeal & Ardor restano una realtà dal forte impatto, ma per chi li ha già vissuti in contesti più adatti alla loro identità stilistica, lo spettacolo di questa sera potrebbe risultare poco incisivo.
GIORNO 3 – Domenica 18 Maggio 2025
DESERTFEST LONDON 2025 il nostro live report
Siamo quasi giunti al termine della tredicesima edizione del Desertfest London e, prima di immergerci nuovamente nella musica dal vivo, trascorriamo qualche momento nell’area esterna del Black Heart.
Nota come Stoner Alley, la location è animata da stand di tatuatori, gioielleria e merchandise ufficiale della Desertscene.
Qui, molti trovano ristoro durante la tre-giorni, sorseggiando birre o i celebri Bloody Mary del Black Heart, che propone anche una cucina esclusivamente vegana di alta qualità.
Perdiamo le esibizioni di Bobbie Dazzle, Khan e Chöd, tre realtà che avremmo voluto vedere, ma sono solo le 17.
La notte è giovane e ricca di nomi particolarmente interessanti.
DUNBARROW – foto di Tim Bugbee
L’heavy rock intriso di doom dei Dunbarrow, sul palco del The Underworld, infonde l’energia necessaria per affrontare l’ultima giornata.
Il quintetto norvegese, in un locale gremito e dall’atmosfera già quasi soffocante, porta una sorprendente freschezza al bill generale del festival, pur senza proporre nulla di particolarmente innovativo.
I brani si sviluppano tra passaggi epici e numerosi cambi di tempo e atmosfera, oscillando tra un doom à la Lord Vicar e momenti più sostenuti, impreziositi anche dall’uso del tamburino.
È passato fin troppo tempo dal loro ultimo album – Dunbarrow III (2021) – e quest’esibizione non fa che accrescere la speranza di un rapido ritorno con nuovo materiale. Senza dubbio, uno degli highlight della giornata.
DIVIDE AND DISSOLVE – foto di Jessy Lotti
Atmosferma radicalmente diversa quella che troviamo all’Electric Ballroom (oggi nuovamente venue principale dopo la parentesi alla Roundhouse), dove troviamo i Divide And Dissolve.
Il duo australiano (duo in sede live, ma in realtà progetto solista della chitarrista e sassofonista Takiaya Reed, aka T//R) propone un drone metal strumentale dalle tinte doom, accompagnato da un messaggio politico profondo, incentrato sulla violenza coloniale e la sovranità indigena.
Slogan come Destroy White Supremacy o Dismantle Colonial Borders, visibili sul loro merch, ne sono un chiaro segno.
Musicalmente affascinanti, pesanti e distorti, i loro brani si sviluppano attraverso loop e ripetizioni ipnotiche, arricchiti dall’inserimento del sassofono e dal ritmo quasi tribale proveniente dalla batteria.
Consapevoli che più tardi gli Earth, maestri e pionieri del drone metal, calcheranno lo stesso palco, lasciamo l’Electric Ballroom per immergerci in una proposta dai tratti più aggressivi allo Human Disease Stage del Black Heart, finora ancora inesplorato nei nostri tre giorni di festival.
BILE CASTER – foto di Tim Bugbee
Pesante come il piombo e con un tiro che sfiora il funeral doom, il trio Bile Caster da Leicester scuote le pareti del Black Heart con un ritmo mortuario e inesorabile.
Le loro composizioni alternano sezioni dilatate a esplosioni di feroce sludge metal, creando un’atmosfera oscura e travolgente, anche grazie allo sporadico growl di stampo death metal del vocalist/chitarrista.
Con un unico EP all’attivo, Writhing Between Birth And Death (2024), oltre a un demo e uno split, la band lascia intravedere un potenziale che speriamo di ritrovare, in un futuro non troppo lontano, in un disco sulla lunga distanza.
Sono le 19:30, è tempo di spostarsi verso l’Underworld, dove sta per salire sul palco uno degli act più attesi di questa giornata.
CASTLE RAT – foto di Jessy Lotti
L’attesa per i Castle Rat – band/fenomeno proveniente dagli Stati Uniti, la cui notorietà è esplosa nell’ultimo anno – è alle stelle.
Ancor prima dell’inizio, l’Underworld è già gremito all’inverosimile, con una calura soffocante e una fila che si snoda fuori dal locale, probabilmente uno dei pochi ingressi regolati da un sistema “one in/one out” dell’intero weekend.
Dopo un soundcheck di dieci minuti davanti a un pubblico impaziente, il quintetto newyorkese riemerge on stage.
Il loro fantasy doom metal, arricchito da recitazioni teatrali, calici, spade, e musicisti calati nel ruolo di personaggi come The Plague Doctor (trad. il medico della peste) o The Druid (trad. Il druido), può risultare un po’ sopra le righe.
La loro autoproclamata “Rat Queen” (trad. Regina dei Ratti) è tuttavia una vera e propria icona visiva, dal gusto medievale e audacemente provocante, graziata anche da talento vocale e strumentale di rilievo.
L’acustica impeccabile valorizza una proposta musicale coinvolgente, un doom/heavy metal che a tratti richiama band come gli Smoulder, ma anche realtà come i Green Lung (tra l’altro, Tom Templar, il cantante di questi ultimi, è presente tra il pubblico).
Nonostante le notevoli qualità del concerto, decisamente non solo sceniche, l’ambiente dell’Underworld si rivela insostenibile, con temperature percepite paragonabili a quelle di una sauna.
A malincuore decidiamo di abbandonare la venue prima della fine del set.
Sarebbe opportuno che la location adottasse sistemi di ventilazione o di ricircolo dell’aria più efficaci, o quantomeno che limitasse l’accesso a un numero inferiore di persone, per evitare situazioni che, in alcuni momenti, si trasformano in una vera e propria tortura.
BLACK WILLOWS – foto di Tim Bugbee
Niente di meglio di una passeggiata rigenerante verso il The Dev per riprendersi dal collasso fisico sfiorato durante il set dei Castle Rat.
La meta non è casuale: sul palco del piccolo locale di Camden si esibiscono i Black Willows.
Il trio losannese si muove in un territorio che loro stessi definiscono shamanic doom, una miscela esoterica di sonorità pesanti e suggestioni spirituali ispirate alla filosofia della psiche e a religioni lontane.
Dal vivo, si rivelano compatti e incisivi, con il frontman Aleister Crowley (pseudonimo evocativo, il vero nome resta sconosciuto) che spicca per carisma e presenza scenica.
Tuttavia, l’ambiente del Dev non si presta pienamente alla componente immersiva e ritualistica su cui la band fonda la propria identità artistica.
Una performance solida, che meriterebbe un contesto più adatto per esprimere appieno il suo potenziale, già oltremodo evidente su disco, in particolare nell’ultimo Shemurah del 2021.
EARTH – foto di Jessy Lotti
Siamo ormai agli sgoccioli di questa edizione del Desertfest, e sul palco dell’Electric Ballroom spetta agli storici Earth l’onore – e l’onere – di chiudere il palco principale.
La formazione di Seattle, guidata da Dylan Carlson, propone un set di un’ora e mezza all’insegna di quel minimalismo monolitico che l’ha resa una realtà di culto nel panorama drone/doom metal.
La sala, sorprendentemente, è solo parzialmente gremita – ben lontana dal pienone registrato venerdì per gli Elder – ma non è difficile comprenderne il motivo.
Il suono degli Earth richiede pazienza, predisposizione mentale, e non è forse ciò a cui molti avrebbero voluto assistere nel momento conclusivo di un festival così denso.
Eppure, nonostante un accenno di spossatezza, ci ritroviamo catturati, quasi ipnotizzati, da quella lentezza solenne, da quel flusso sonoro meditativo che diventa una sorta di rito catartico.
Con Adrienne Davies sempre presente alla batteria, Jodie Cox alla seconda chitarra e Bill Herzog al basso ad accompagnare Carlson, gli Earth (reduci dalla recentissima pubblicazione del live album WEM Dominator) dimostrano ancora una volta di essere maestri nell’arte della sottrazione.
E se gli Elder, per quanto attesi e tecnicamente perfetti, non erano riusciti a trascinarci pienamente nel loro mondo, la band di Seattle vince senza sforzo.
Il culmine arriva con The Bees Made Honey In The Lion’s Skull, brano che, durante le sue estenuanti ripetizioni, dà un senso compiuto a tutta l’esperienza.
FAMYNE – foto di Sam Huddleston
Ma non è finita qui. Dopo la disastrosa esperienza all’Underworld con i Castle Rat, tra aria irrespirabile e calca, decidiamo senza indugi di non tornarci.
Saltiamo così sia i Dopelord che gli Electric Funeral (storica cover band dei Black Sabbath, ormai presenza fissa in chiusura di festival) e puntiamo tutto sui Famyne al Black Heart.
Con due full-length all’attivo – l’ultimo, II: The Ground Below, uscito nel 2022 – il quintetto di Canterbury si conferma solido e convincente, tanto su disco quanto dal vivo.
Doom metal epico, costruito attorno alla voce imponente e sicura di Tom Vane, dall’aspetto marcatamente gotico, la cui interpretazione drammatica e teatrale si intreccia perfettamente alle cupe cavalcate strumentali.
Un finale perfetto per Desertfest London 2025 che, nonostante qualche riciclo – diverse band si erano già esibibite in edizioni passate – e una scena sempre più affollata di nomi mediocri o troppo derivativi, riesce ancora una volta a proporre realtà interessanti e non scontate,.
Ci rimane addosso la voglia di continuare a far parte di questo microcosmo unico e familiare, che per molti ormai è un appuntamento imperdibile.
Band che avremmo voluto vedere e che per un motivo o per un altro abbiamo perso: Sea Bastard, Devil & The Almighty Blus, Hippie Death Cult, Slift, Pallbearer, Planet Of Zeus, Longheads, Konvent, Bobbie Dazzle, Calligram.